(a L. Van Beethoven)
Caro amico, quando sento la tua musica, vedo Fidia che scolpisce con le sue mani gentili e nodose al contempo e ti rammento quando trasformavi le passioni in note celesti….
Lievi e nerborute l’acque…,
Di sole intrise, raccolte e quiete
Quiete e raccolte
In se stesse, timide si spargono
E corrono
Sulle pietre scivolose del ruscello.
E’ un ruscello al quale io sono
Tanto affezionata, amico mio,
Che mi ricorda quando
Da bambina camminavo giocando
In quel bosco di silenzi rappreso;
E le foglie, tutte le foglie,
Avevano sul loro dorso stanco,
Quelle che cadevano d’autunno intendo,
Una lacrima nascosta come i volti nostri,
Dell’infanzia avevamo i segni e i sogni
Giravano nel cielo azzurrino e le foglie
Portavano inscritte le storie degli gnomi
e dei folletti,
dei nani e delle fate che abitavano i tronchi
Delle vecchie querci.
Poi, con gli occhi interiori
Che in un attimo eterno, per dono,
in questo giorno pasquale, si sono aperti
alla luce di Damasco,
Offerta pentecostale
ai sussurri del cuore.
Intravvedo nei fatti quotidiani,
Il mondo prodigioso dello Spirito.
L’aurea nota risuona dappertutto
Ritorna memoria delle origini,
Verso l’Alto si eleva.
Le acque, in avanti scivolando
Verso il basso accompagnano entità misteriose
Che s’incagliano, a tratti,
Sui rametti di legno che l’inverno
Ha tagliato, potato,
Di nuovo seminato
Sul terreno che gela.
Vedo queste entità condensate
Gementi perché prigioniere,
che cercano di liberarsi
Dal giogo acqueo
Che le trattiene.
Le acque, al passaggio, si uniscono
Alle radici degli alberi ammuffiti,
Oppure a radici ancora verdi che,
Come me, lontane dagli affetti umani,
Forsem, non sentendo,
Si sono addormentate.
No! (Dicono alcune voci sommesse)
Noi non sogniamo mai,
Siamo rammemori di trascorse stagioni,
Anni e secoli indietro, ere antiche
della nostra terra
sono i geroglifici
di nostalgia pervasi.
No, non ho lasciato il Paradiso
Per niente.
Per le Muse (sono Dodici, lo ricordo io,
Per grazia), rimaste
in Nove….
Per la Bellezza e la Poesia,
Mie uniche amiche rimaste;
O Muse, ci siamo scordati
Tutti i vostri nomi.
I vostri Visi di deità sommerse.
E un attimo eterno diventa folgore,
Basta rivedere
I vortici e il muoversi, nell’aria
E nell’acqua di cui parlavo prima,
Qui tutt’intorno
Degli Spiriti creanti è l’intrecciarsi lieto,
Delle danze eteree delle api,
Della gioia nascosta fra i fiori
Che riesco a riconoscere ancora,
Oltre le sofferenze,
Oltre il cuore mio che si è spaccato,
Per aver visionato troppo Male,
L’ostacolo all’umanità progrediente.
Ed è Beatitudine la rosa
E le rose che stupite la mirano,
Che sciolgono la luce
Del polline disperso dal vento
Secondo un armonioso Ordine
Di questa Storia eterna e umana insieme
Io vo cantando, ricordando sonorità
Che si sono destate
per un miracolo inatteso,
Un sonorità che non si può pronunciare.
Se non si ama con tutti,
Che fa perdonare
Ciò che non è accaduto,
Se si ama con tutti.
E’ il mio grido che scuote
Dalla morte e dai cadaveri spenti
La Vita che risorge, finalmente!
Parlo con parole di logos….
Parole retoriche, tu dici?
Costruzioni poetiche antiche?
Ingorgo di classicismo in erba?
Lo, sono ancora neonata.
Odo solo Il Logos nella Parola,
Eè bello di nuovo amare,
Amico caro, come un tempo,
Tornare io e te a correre nei campi
Dopo aver avuto le membra intorpidite,
E’ bello poter rivedere la mia figura
che danza nell’aria, parlando,
Pregando.
Di nuovo, cantando.
Qual è il segreto di tutto questo, chiedi?
Lo slancio e la caduta, hanno reso me,
Una e Trina.