Di velluto

Di velluto il tuo austero camminare:

vedo una veste che ondeggia nel sogno,

la cura fu l’amore improvvisato

nascosto tra le pieghe del tuo passo.

Nel plesso solare ritmi sbocciando,

inspiro, espiro, suoni volteggiano

linee mosse che muovono i fiati.

Vere etimologie scorgo nel pieno

Essere dello Spirito vivente.

Ed è d’amore il soffio che mi nutre,

in questo nostro accordo armonico.

Ed è di Luce che è Vita, risplende

la radice misteriosa dei Nomi,

l’essenza custodita nel Triangolo

d’oro, ho ritrovato il suo Segreto.

Ed è d’amore il mio dono donato

che mi fu consegnato come gemma.

Persino il vento lo vuol trattenere

mentre illude le foglie sempreverdi

sigillate, fatte di Tempo eterno.

Di velluto l’invisibile velo,

va, torna, va via, torna nuovamente,

mi volgo: è velluto il tuo incedere.

Alessandra Vettori Maiorelli (Da Canti)

Mondrian, Albero rosso, 1908

Non siete soli

Chi sei, tu?

Questo pomeriggio, al caffè, ho di nuovo una partita di scacchi.

Tutte le volte, Amin, mi chiede di giocare.

  • Sono stanco – gli dico appena entro e vado dritto al banco.

Ho bisogno, dopo il lavoro, di bere un cappuccino. Contrariamente a quanto si pensa, a me il cappuccino fa venire una sonnolenza benefica, non mi eccita per niente.

Mi piace, il Caffè Irian.

Ci puoi stare da solo con i tuoi pensieri, se vuoi, non desti l’attenzione di nessuno, passi inosservato, insomma, se è questo quello che hai in mente.

In qualche punto del locale trovi sempre una sedia e una porzione di tavolo su cui scrivere, su cui poggiare il tuo pc. 

È una città, Firenze, che anche se sei anonimo, non ti consente l’anonimato. Si respira quest’obbligo a partire dalle mura del centro storico fino alle periferie, quindi non importa se si tratta di palazzi patrizi o di palazzi spenti, da ristrutturare, immessi nelle viuzze, nei canti o nei borghi.

  • Allora, ti va una partita o no? – Amin mi guarda con quegli occhioni scuri e profondi da egiziano e mi mette la scacchiera del Caffè sul tavolo. Non lo fa per maleducazione, la passione che ha per gli scacchi, non lo rende cosciente delle sue invasioni in campo altrui. Lo fa, semplicemente. A volte c’è chi si irrita e lo manda, lui però sorride, un po’ umoristicamente, a me sta simpatico, non mi fa arrabbiare.

Amin non aspetta mai che io gli risponda. Lo dà per certo, che in quel momento voglia giocare con lui.

Quando viene Amin, non c’è mai verso di fare altro. 

Comunque, sono affezionato al Caffè e non voglio cambiarlo con altri locali per questo unico motivo. E poi, dove ce n’è un altro simile?

Veramente e a essere sincero, ce n’è uno alla periferia di Parigi, il Bar 61, che assomiglia vagamente al nostro, gli arredi sono simili, ci naviga di tutto, di tutto un po’. Un concentrato di miriadi di mondi, di popoli, di civiltà. I francesi sono più razionali, più intellettuali di noi, come posso dire, che sentiamo col cuore, tutto.

Gli amici stranieri del Caffè mi hanno accettato, alla fine non ci fanno più caso se sono italiano o no, hanno capito che sono un italiano immigrato in casa mia, e qualche anno fa ne avevo da fare, riguardo a questo, di commenti.

Ricordo che mi venne incontro, la prima volta che ne varcai la soglia, come di un tempio misterioso, Mamadou il senegalese, che in seguito è diventato un mio amico. Lui era stato acquistato, appena quindicenne, da una squadra di calcio di una città tedesca, ed era venuto, fanciullo, a giocare in Europa, in Germania. Ah, sì, nel *, era la primavera del ’90. 

È simpatico, Mamadou, come Amin, quando ride e ti spalanca quella bocca bella di denti sani e belli, ti mostra un volto che si illumina tutto, come se sperimentasse un puro divertimento, una bella gioia di vivere, di esistere. 

All’inizio pensava che volessi fare il gradasso, entrando nel Caffè Irian. Di sottofondo si sentiva il brano dei Beatles, “Hey, Jude”,  “Better; better, better, better, better, better  oh”, “na, na,na, na, na, na, na, na, na, na, na, hey Jude”. Mamadou pensava anche che mi volessi distinguere.

Sono passati tanti anni da allora e siamo sempre amici. La comunità dei senegalesi è davvero formidabile. Sono sempre vestiti bene, in maniera studiata intendo, anche se semplicemente. Molti di loro hanno un lavoro fisso, fanno gli impiegati, altri hanno avuto il coraggio di mettere su piccole imprese cui partecipano tutti i familiari, altri vivono alla giornata, vivono.

Subito dopo esserci conosciuti, Mamadou mi invitò a mangiare a casa sua; sta insieme a Ludovica, alta, ben fatta, con i capelli castani corti, lavora per una casa di moda francese.

Il couscous di Mamadou me lo ricordo ancora, piacque a tutti, a me lasciò un buon sapore in bocca nonostante la sua piccantezza, e psicologicamente mi affascinò il fatto che mangiassimo tutti dallo stesso piatto, non ero abituato e allora solo il pensiero mi infastidiva. Tutti insieme, si sentiva lo stare non l’uno davanti all’altro, ma l’uno accanto all’altro, come se lo spazio fosse un cerchio che irradiava tutt’intorno gli stessi raggi e il punto al centro, completamente invisibile, fossimo noi spettatori che ci vedevamo fuori da noi stessi, come siamo realmente. Capisci il reale senso di comunione insieme agli altri, gli altri rendono vera la tua dimensione. Uno accanto all’altro: una dimensione di fraterna disposizione nello spazio. 

Il mio amico era felice, quando giocava a calcio, si sentiva qualcuno, venne via dopo qualche anno dalla squadra e rimase a Berlino negli anni successivi.

Si sa, gli stranieri vengono chiamati emigranti, immigrati, extra-comunitari, o cosa, non riesci mai a trovare un nome appropriato, perché sembri ignorare che ognuno di loro ha un nome e un cognome, devono cercare di inventarsi una vita, quando vengono da noi dal loro paese.

Lui ha una famiglia numerosa a Dakkar, tutti aspettano da lui aiuti e soldi, è una famiglia povera.

Ha un diploma però, non so in che cosa, non conosco la scuola senegalese.

Io insegno materie umanistiche in una Scuola superiore, sono tanti anni che ho a che fare con i ragazzi, di tutti i tipi, soprattutto stranieri, molti sono casi difficili, vivono in un ambiente povero in tutti i sensi.

Mamadou suona la tromba, ha una discreta cultura, forse una moglie a Berlino, forse un’altra a Dakkar, forse una qui, non so se ha sposato Ludovica o ci convive e basta, non parla molto di sé, anche se scherza sempre.

Dragan comincia a spegnere le luci del Caffè, che apre alle 11 del mattino e chiude alle 1,00 di notte. Già verso mezzanotte avverte che dobbiamo andare a letto. Adesso vuol dire che il Caffè chiude, lui non va mai oltre le 1,00 di notte, è metodico, pignolo, rasenta quasi il parossismo. 

Il Caffè Irian è nato così: Dragan è kossovaro. Insieme a due fratelli e alla sua famiglia, è arrivato nel 2000, sùbito dopo l’eclissi totale di sole e da allora, dopo aver preso il diploma in un professionale, sebbene in anni diversi, tutti e tre fratelli – lui e Goran e Stevo – hanno deciso di mettere su un piccolo Caffè nel centro storico. Poi, nel 2004, si è aggiunta una sorella, Ana, la più piccola. 

Dragan ha 27 anni, i fratelli sono nati a distanza di pochissimi anni l’uno dall’altro Goran ne ha 23, Stevo 17. Ana, 15.

Possiamo ricostruire le storie di ogni popolo, ma penso che se ci proviamo, ci accorgiamo allo stesso tempo che per prima cosa parla la persona e la sua sensibilità. 

All’inizio il Caffè era un ritrovo per persone che si erano ricollegate alla loro comunità, per lo più serbi, kossovari, croati, rumeni, successivamente centro e punto di incontro di gente dell’est, molti slavi. Si sono aggiunti col tempo, grazie ad amici di amici, incontrati sul lavoro, grazie ad eventi comuni, feste tradizionali, matrimoni, insomma un po’ di tutto, uomini e donne del mondo mediorientale, indiani, pakistani, africani, uomini di colore del Nord America e via, via.

Italiani no, almeno in principio, che io ricordi.

Nel vedermi lì, accanto a loro, la domanda era quasi sempre: “Tu, chi sei?”. Pativo tanto quando davo la mia risposta, non certo perché non consideri importante essere italiano, anche se amo l’Italia. Tra loro mi sembra di essere un immigrato in patria.

Al Caffè Irian non dovrei esserci nemmeno io. Ci sono perché ho sposato Awa, la sorella di Mamadou, e abitiamo vicino a piazza Santo Spirito con la madre di lei.

Io sono divorziato dal ’96, non ha funzionato, Clara era bella, io l’avevo conosciuta quando facevo l’Università, sono laureato in Lettere classiche. Lei amava la storia e  più i latini che i greci a dire il vero, a differenza di me.

Awa, invece, mi ha capito subito. Sa che sono un po’ particolare. Ci siamo messi insieme, lei ha studiato qua, è giovane, ha dieci anni meno di me, è una forza della natura e io le sono grato, perché ha il potere di farmi sempre sentire meglio di quello che sono realmente. 

 Con Awa ho iniziato a venire al Caffè e poi lei, che lavora con Mamadou, arte Dogon, per i mercati d’arte, non viene sempre con me, mi lascia venire da solo, sa che ho bisogno di stare con gli altri, di misurarmi con il mondo, mi sento moderno, a fare così.

Un anno fa.

Un anno fa, mi sono lasciato convincere da Esteban, un mio collega, che insegna spagnolo nella mia stessa Scuola, viene da Madrid, a creare qui, all’interno del Caffè, un centro d’arte, dove poter svolgere varie attività culturali, presentazioni di libri, convegni, conferenze, cineforum, interviste a personaggi che invitiamo via via e studiosi, o simpatizzanti di tutte le culture.

  • Esteban, sei sicuro di voler portare a fondo questo progetto? –
  • Perché no? – rispose lui.
  • Sono sempre stato dell’avviso che nella nostra città mancasse un punto di raccordo multietnico. Ma i fondi? –
  • Li troveremo. Io li troverò -.

Li abbiamo trovati davvero. Il finanziamento di base collettivo è venuto da un giornale cittadino e noi  abbiamo cominciato ad occuparci di diverse realtà: la saletta delle conferenze, la sala per le attività ricreative, la sala di lettura, una piccola biblioteca universale, il Caffè.

Siamo contenti. Ci hanno aiutato in molti, se è per questo. Anche il mio amico iraniano Jenkis si è fatto in quattro per darci una mano; lui è un iraniano dissidente, è un architetto, ma non può rientrare più nel suo paese di origine, perché a suo tempo scrisse un libro dove criticava aspramente le politiche dello Scià.

Un’altra azione che ci piace fare sono i tornei di scacchi. E molto altro ancora.

Per farmi capire.

Il problema era di far vivere il Caffè nella città come un luogo dove si fa cultura internazionale, dove si esce dal clima ristretto di questa nostra città che sembra, anche se si professa metropolitana, un pochino provinciale; e questa fissa di voler fare parte dell’immaginario collettivo sociale solo per i meravigliosi ricordi del nostro Rinascimento.

Qualche nostalgico intellettuale potrebbe prendersela a male e con me, per quanto sto dicendo. Rimane il fatto che non voglio offendere nessuno, sono anche le mie origini, ci mancherebbe.

In ogni caso, dobbiamo sapere e poter di nuovo creare e quindi innovare, è il nostro lascito.

Il mio amico greco Stefan Andròpulos sembra essere il prototipo di questo nuovo modo di essere e di concepire il mondo. Ho di lui un’ottima impressione.

È un corrispondente estero e ha fatto per molti anni il corrispondente di guerra in Afghanistan.

I greci, ti dice di continuo se lo vuoi ascoltare, hanno inventato la vera democrazia circa 2500 anni fa e, da allora, stanno cercando di piazzare un nuovo sistema di fare politica. Per questo in Grecia si sembra “fermi”, non c’è alcun movimento in avanti, almeno apparentemente.

  • Qual è? – domandò io.
  • La libertà…, è la libertà – fa lui e il Caffè si illumina tutto stasera, sembra che la speranza abbia conquistato la sua luce nell’ombra.

 Terapia di gruppo

“Non basta andare in un altro paese”.

È un bel mercoledì pomeriggio e abbiamo visto “Timbuctu”.

Lui, Zoltan, mi fa sorridere, è laureato in ingegneria meccanica, ragazzo molto intelligente, viene dall’Ungheria, è venuto in Italia per vivere un’impresa.

Sono un amante della civiltà ungherese, è di una profondità incredibile, la si può ammirare e veder trasparire per esempio dalla sua letteratura, a cominciare dal poeta Petöfi, tanto per citarne uno.

Siamo venuti via perché non sopportavamo il governo di Viktor Orbàn – Péter, suo fratello interviene in modo più tagliente – la corruzione che abbiamo veduto a casa nostra ci ha spinto a venire via…; noi ungheresi siamo abbastanza sedentari, ma il fatto di vedere stare in Parlamento frange estreme che hanno il potere di legiferare e di darci un orientamento, è… roba da matti. Molti giovani vengono via dall’Ungheria per questa ragione…-.

Lei, Csilla, ungherese, ha due lauree, lui, imprenditore in patria, hanno deciso assieme di scappare e di stabilirsi qui, dopo un periodo satellitare a Londra: hanno preferito imparare una lingua ex-novo, e vivere dove non ti si chiede a quale ceto appartieni, tu chi sei, dove sei nato, il tuo conto in banca.

Oggi facciamo terapia di comunità. Per terapia al Caffè intendiamo un processo di crescita individuale messo in comune con gli altri amici, che a loro volta ci rendono il dono. 

Il sangue delle generazioni diventa materia per raccontare storie e stare insieme, qualcosa entra dentro di noi e ci trasforma. Poi abbiamo fra noi, come garante di un alibi professionale, una nostra amica psicologa, non è italiana nemmeno lei, è tedesca, di Dresda, ha però sposato un medico italiano che frequenta l’Indar.

Melusine è un’amante appassionata di cinema e ricorda sempre il Rif di Tangeri, che fu costruito nel 1938 e poi chiuse, poi di nuovo riaperto nel 2003, grande edificio bianco con le scritte rosse, divenuto associazione senza scopo di lucro grazie all’intervento della cineasta e fotografa Yto Barrada e di un gruppo nutrito di tecnici cinematografici e artisti, è ora anche il primo centro cinematografico curato da artisti del Nord Africa.

Inaugurato con il nome di Cinémathèque de Tanger, proietta film contemporanei e classici, raccoglie spettatori di tutte le età, di tutti i ceti e di tutte le professioni. Melusine sta con Esra, l’antropologo di turno, quello delle spiegazioni razionali, per capirci; ama il teatro e assistiamo spesso a questi loro duelli dialettici, mentre iniziamo la terapia di gruppo. Oh, cito laureati, ma tanti qui sono operai, sono impiegati, sono.

Stasera è tardi, molti se ne devono andare a casa, l’indomani c’è la sveglia che suona all’alba, per altri di noi è tempo di andare a letto quando alcuni si svegliano. Anche nei differenti orari del tempo, dobbiamo agire con volontà per andare d’accordo e trovare un’intesa.

Beviamo tutti qualcosa, prima di salutarci. Del film che abbiamo visto ne parleremo il prossimo mercoledì, fa Melusine.

Le immagini violente di Mossul ci sfilano imperterrite davanti, l’intero museo sgretolato dalle martellate, a pezzettini frantumati, perché nessuno li possa mai più restaurare; ci gridano addosso le notizie dei circa 8000 volumi e manoscritti della Biblioteca di Mossul bruciati ridendo per la contentezza e ridotti in cenere.

Melusine prende la borsetta, ha gli occhi tristi e c’è sgomento nell’espressione, gli amici sono imbarazzati, Amin vorrebbe giocare a scacchi, ma capisce che è tardi. 

Stasera è tardi per tutto. Solo caos, impastato di ragioni per trovare un senso alla vita e al ricordo.

Shomari invece viene da un remoto paese del Corno d’Africa, non viene spesso al Caffè, quando viene la sua presenza si sente, ha un carisma eccezionale, fa il camionista.

Senza identità alcuna, ferito nel cuore e nella mente, arrivato in Italia si è adattato, è diventato un pentecostale, in quell’immersione in una religione precisa, ha sentito di poter ritrovare i valori che non riusciva più a rivivere da tempo, ormai.

Anch’io sono figlio di etnie diverse e non so più chi sono.

Su, Amin, giochiamo a scacchi, io non mi esercito abbastanza e allora giochiamo a scacchi, diventerò bravo, ne sono certo.

Amin vince quasi sempre.

Io, Mario, vorrei essere ricco, perché sono stato povero per troppo tempo. Voglio imparare ad essere bravo e a vincere, perché quando si gioca a scacchi, nessuno vince, se nessuno perde.

Se vinco, ho un bisogno stringente di un perdente, altrimenti non posso sentirmi vittorioso. In questo si può trovare il rispetto per l’umanità che portiamo in noi e che dà un senso alla nostra vita.

Scacco matto agli immigrati, recita un programma televisivo. Sei un clandestino, tu? Un profugo? Un rifugiato politico? Uno che fugge dalla violenza e dal disordine sociale? Sei uno che non ha voglia di lavorare? Vuoi la vita facile?

Fahim viene da un barcone, i suoi genitori hanno pagato molto per salirvi assieme al figlio.

Le immagini dei clandestini che vengono sui barconi le vede e le commenta, adesso sorride, si trova in uno studio televisivo, è un ragazzo maturo, dall’intelligenza che nasce da una logica solare sconosciuta, diversa dalle intelligenze occidentali alle quali siamo abituate.

Fahim commenta: sono immagini tristi.

Noi sappiamo, dice poi, che quelle persone vogliono trovare una condizione migliore. Una volta in viaggio, percorrono kilometri in situazioni disperate. Io, aggiunge, quando ero in Bangladesh sapevo che mi trovavo in bilico, che ero in una situazione di pericolo. Sono tra i pochi che si sono salvati.

Salti temporali: si parla dei Dogon, ce ne parla Mamadou che è tutto soddisfatto, di parlare dei suoi avi; dello sciamano che conosce la prima cellula e che parla ai giovani iniziati che hanno superato le prove del grande essere acquatico che li ha originati e che veniva dalle stelle, veniva.

Perciò pensiamo di essere soli.

Con Awa è la stessa cosa: quando torno a casa, sùbito voglio stare con lei ed averla.

Come le accarezzo i capelli morbidi e la bacio, l’abbraccio è intenso, gli sguardi si incrociano, ma una parte di lei mi appare indecifrabile, oscura, e non si tratta del colore della pelle: un mistero che ti vedi davanti e si allontana, si allontana sempre più.

Se pensi di averla persa, perché stare in lei diviene una calma posizione, dopo la massima espansione amorosa in lei, lei ritorna in me e la sento di nuovo, vulnerabile e celeste, ma non so cosa sia avvenuto.

Rapito, io, Mario in persona, che sono un uomo di questo tempo.

Alessandra Vettori, Non siamo soli, racconto

Coupe de hogon, population Dogon, Mali, falaise de Bandiagara, 19e siècle, bois. Musée du quai Branly.

Cristallo di rocca

A volte mi pare d’essere un cristallo

e dall’interno osservo quanto mi circonda:

quel punto mi pare il centro di una sfera,

in quel punto invisibile riappare

tutto il mio Spirito alla periferia…

Lontano, vicino, sopra o sotto,

indietro e in avanti,

come aggrada di fatto all’Universo,

vasto che mi contiene

ma al tempo stesso permette che mi espanda.

È tutto bello quassù,

caro il mio sasso di lago.

Alessandra Vettori

Quartz (Var.: Herkimer Diamond) Locality: Middleville, Town of Newport, Herkimer CountyNew York, USA (Locality at mindat.org) Size: 7.9 x 7.2 x 6.4 cm. Looking jewel-like in its natural dolomitic vug is a doubly-terminated, transparent, colorless quartz crystal, measuring 2.75 cm in length. This specimen dramatically illustrates how crystals can form in the small cavities within rocks. Ex. Harold Urish Collection.Rob Lavinsky, iRocks.com – CC-BY-SA-3.0


Disse Ofelia ad Amleto che non si finse folle

Hugues Merle (1822-1881)

Vento di Tempesta, sai dove stiamo andando?

La Luna e il Sole hanno aperto di nuovo le porte

del profondo nero dell’Universo.

C’è tutto lì,

pronto a implodere come una stella

che muore

con sé caos rappreso portando.

Ti prego, Vento di Tempesta,

sai dove stiamo andando?

Pericoli abissali

sulla strada

che non è un cammino

che non ha uno scopo

né una finalità

non ha ordine né chiarità

né oscurità;

il nulla del niente

ci attende a un crocicchio.

Ci sono le streghe lì,

ci sono gli stregoni,

dannazione eterna

e fuoco e braci

e legna secca.

Ti prego, Vento di Tempesta,

sai dove stiamo andando?

Ciò che conduce

ci farà perire;

solo,

un assenso di volontà

d’amore

si rende necessario,

a coscienza,

bisogna che affiori,

stai per adesso

scandagliando

le possibilità:

o sarà gioia pura

o tremendo dolore.

E non potremo più tornare indietro.

Ti prego, Vento di Tempesta,

lo sai dove stiamo andando?

La ballata del Coboldo

Eccoti qui! T’ho cercato

ovunque, in casa, anche

nel ripostiglio che ti piace tanto.

Ah, ti sei travestito da bambino?

Per non farti riconoscere,

m’immagino, da estranei.

Sei bravo e mi piaci molto,

quando rassetti le stanze,

insegui i ragnetti

che incauti,

si nascondono

a volte, negli angoli

di alcune pareti.

Evvai, ti tiro le orecchie,

se non ascolti in tutto

i miei comandi.

T’adoro, quando lavori

in cucina, lavi gli stracci,

i piatti splendono,

i bicchieri sono talmente trasparenti

che anche l’acqua si vergogna

perché viene vista per quel che è.

Coboldo caro!

Quando bussasti alla porta

della mia casetta nel bosco,

ti presentasti dispettoso

e birbantesco, a volte incattivito

dalla tua natura di folletto,

stringevi i miei bambini

un po’ troppo forte, lo ammetto,

ma mi fosti simpatico subito,

ho un certo debole per gli Elementari.

Oh , ti ho addomesticato,

lentamente hai scordato

chi ti ammaestrava a fare solo guai,

apprendesti a fare invece cose buone,

dai cibi cotti, ai pavimenti puliti,

ai vetri trasparenti.

Coboldo caro, non m’abbandonare,

resta qui con me e le lucciole

non fare litigare,

specie quelle veramente innamorate.

Ah, coboldo, non ritornare

nella Foresta Nera dalla quale fuggisti,

perché la mucca ti inseguiva

dannatamente irritata dal fatto

che le avevi contaminato la mungitura.

Coboldo caro, resta con me,

qui, nel tepore del nido che ho creato,

trasforma l’esser tuo, fingi d’avere

due alucce, e vola, libero,

fra gli ontani e i pioppi,

saluta Amore con la manina,

lui viene da lontano

per renderti socievole

e socialmente buono.

Ah, eccoti qui!

Quanto t’ho cercato…

Alessandra Vettori Maiorelli

Da La Mythologie du Rhin di X.- B. Saintine, illustrazioni di Gustave Doré, Paris, 1862

Sempreverdi

Sempreverdi ideali

fanno rinascere

dal profondo

le nostre vite:

pareva che ne fossero

state cancellate le linee del destino,

la vera essenza della nostra opera

sulla Terra.

Invece gli Angeli

le hanno salvate,

nella loro memoria e d’incanto

ci sono state restituite.

Adesso salgono al Cielo

e sono accolte da Celesti Deità

e tornano verso di noi trasformate,

colorate d’amore, di armonia,

di misteriosa felicità,

che non sembrava esistere più da tempo ormai.

Sempreverdi ideali

sono puntini di luce

e noi scopriamo che il ritmo delle stelle

è diventato il ritmo delle nostre anime belle.

Alessandra Vettori

Abtei Prüm

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